Nelle religioni mesopotamiche la suggestione dell'"essere" di Parmenide

Nelle religioni mesopotamiche la predizione dell'”essere” di Parmenide

I “me” degli dèi dell’oriente antico.

Nelle religioni praticate 2 o 3 millenni prima di Cristo c’era già la percezione dell’essere, poi sviluppato nella filosofia di Parmenide? Secondo gli studi storici è un’ipotesi percorribile.

Nelle religioni mesopotamiche le divinità erano intese come dèi locali i quali si dedicavano alla protezione di uno specifico popolo. La credenza diffusa era che le guerre si risolvessero in base alla potenza del dio di una tribù rispetto a quello della forza rivale. La sconfitta non era però vissuta riconoscendo una inferiorità del proprio dio, ma attribuendo a lui il disinteresse nella battaglia, per punire il popolo di qualche colpa.

Una “classifica” di divinità

Questa concezione finì comunque per creare una graduatoria degli dèi, i quali, come credettero anche i Greci successivamente, si litigavano tra loro.

Per la mentalità orientale antica non fu quindi difficile attribuire a questa immensa quantità di divinità un grado cosmico discendente, che avvicinava attraverso una gradualità di potenza, il “divino” all’umano. Si arrivò quindi a considerare le divinità inferiori o sconfitte come dèmoni. Bàal (= il padrone), ne potrebbe essere un esempio.

Il termine di paragone che indicava la legittimità di una divinità di ritenersi più potente rispetto ad un’altra, era quantificabile nel “me”.

Questa particella viene ora interpretata dagli assirologi in diversi modi. Prevalgono due scuole di pensiero.

La prima ritiene “me” da intendere come particella riflessiva, ovvero semplicemente un’espressione volta a valorizzare la figura personale del dio.

La seconda invece fa riferimento al verbo sumerico “me” che indica l’essere quale essenza. Questa ipotesi è avvalorata da molti fattori, tra i quali la “quantità” di “me” che viene trafugata da una divinità ad un’altra, come avviene nel caso di Inana e Enki. Ma anche nelle vicende di uno degli dèi più potenti dell’epoca, ovvero Enlil (la più importante divinità del pantheon sumerico), il quale spodestò lo zio Enmeshara il cui nome è molto significativo. En-meshar-ra, si traduce infatti “Signore della totalità dei me”. Guarda caso Enlil era ritenuto dio delle tempeste, il che richiama Giove (Zeus greco e Juppiter romano) e le sue saette.

Ecco quindi che emerge l’attinenza con Parmenide e la sua ricerca dell’essere, attraverso l’assioma ben noto: “Cio che è, è”. Una stretta relazione della filosofia alla ricerca dell’archè e la religione che ricerca la creazione.

Anche il nostro Dio si presentò in un modo comprensibile secondo questa traccia. Quando si manifestò a Mosè, Dio affermò: “Ehyeh asher ehyeh”. Questa frase si tradusse in greco con: “ego eimi ho on”, “Io sono l’ESSERE”. – Esodo 3:14 nel Septuaginta: «Dio disse a Mosè: “Io sono colui che è (ho on) -.

Ne risulta quindi che questa è certamente la forma di presentazione di Dio più comprensibile ad un popolo antico.

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