Radiografia di un presidente in difficoltà
Non basta il marketing per essere un buon presidente. È quanto, almeno fino ad ora sta rivelando l’esperienza di Donald Trump alla Casa Bianca.
Il suo impatto sulla campagna elettorale è stato vincente. Probabilmente frutto di alcune circostanze che ne hanno determinato il successo.
C’è da considerare lo spirito nazionale degli statunitensi, che è stato colpito dai recenti sviluppi nella lotta al terrorismo. A ciò va aggiunta anche la ricerca del popolo americano delle gratificazioni che “sentono” dovute per i loro contributi nel passato. E non ultimo l’orgoglio di voler primeggiare. Aspetto quest’ultimo che è stato per molti posto in discussione dagli inevitabili compromessi che la Politica internazionale impone.
Donald Trump, come molti altri politici, ha quindi semplicemente cavalcato il malcontento. E lo ha fatto con un’opera di marketing ineccepibile. Andando a toccare i punti nevralgici del disagio statunitense. Facendo breccia di conseguenza su tutti i ceti sociali, compresi quelli che avrebbero dovuto diffidare delle sue parole.
Il suo stesso motto durante la campagna è eloquente: “Make America great again”. Fai tornare grande l’America.
Ma vincere le elezioni non significa saper fare il presidente.
Guidare una Nazione come gli Stati Uniti d’America richiede facoltà eccezionali che non si improvvisano.
L’esempio di Ronald Reagan è lampante. Ritenuto da molti un “fantoccio” di Hollywood, aveva al contrario maturato una grande esperienza politica già ai tempi in cui recitava. Militava infatti nel potente sindacato degli attori. Successivamente fu Governatore della California, comportandosi saggiamente.
Trump ora si trova alla resa dei conti delle promesse assurde dichiarate in campagna elettorale. Alcune soluzioni populiste, in realtà risulta impossibile applicarle. E questo lo si doveva sapere fin dall’inizio. Una campagna elettorale svolta “contro” e non “pro” si ritorce poi verso chi l’ha condotta. Ma soprattutto va a scapito della Nazione.
I problemi sul tavolo sono molti. Si parte dal muro al confine col Messico, che per vari aspetti si rivela un fallimento. Tanto da essere ormai criticato anche da chi ha votato Trump per questo motivo.
Toccando alcun i equilibri socio-economici senza prevederne le contromisure è pericoloso e assurdo.
Anche in politica estera Trump trova duro. I rapporti con Russia e Corea non si sono dimostrati come lo staff di Trump aveva ipotizzato.
Gli interlocutori del presidente hanno evidentemente un tasso di preparazione politica molto maggiore. E nel caso della Corea una percentuale di spregiudicatezza superiore a quella dello stesso Trump.
Il boomerang
Ne deriva una debolezza di fondo dello Stato americano che urta violentemente contro le intenzioni di coloro che hanno votato per l’attuale presidente. E questa debolezza emerge soprattutto nei rapporti interpersonali che si allacciano tra capi di Stato. Non credo infatti che la considerazione personale che Putin, Merkel, Macron, e compagnia bella nutrono nei confronti del presidente statunitense sia altissima.
Insomma: una lezione.
C’è da imparare. Diffidiamo di chi alza la voce nei dibattiti. Di chi propone cambiamenti senza che sia chiara la soluzione. O di soluzione non ne propone affatto e si limita a criticare. Anche se la critica è giusta, se non c’è il rimedio, rimane fine a se stessa.